Caccia allo "straniero"
MARCO D'ERAMO - INVIATO A NEW YORK
Negli Stati uniti diminuiscono gli ingressi di immigrati, aumentano gli esodi. Colpa delle leggi liberticide, ma anche di un diffuso clima di intolleranza. E' un inquietante paradosso: il paese nato e cresciuto sul lavoro degli immigrati, nel secolo scorso, e che ancor oggi prospera sullo sfruttamento dei clandestini, ora li guarda con un sospetto e discriminazione
Sono gli immigrati che negli Stati uniti hanno subito il contraccolpo più pesante dell'attacco contro il World Trade Center. Da allora infatti gli stranieri sono di fatto privati di tutte le garanzie costituzionali, e il peggio deve ancora venire.
Per la prima volta da decenni, la frontiera del Rio Grande vede un controesodo messicano. I dati forniti dall'Immigration and Naturalization Service (Ins) mostrano che il flusso migratorio verso gli Usa si è prosciugato, mentre crescono i rimpatri. La tendenza si delineava già prima dell'11 settembre, ma da allora ha subito una drastica impennata. Un indicatore attendibile è fornito dai fermi di illegali colti mentre cercavano di entrare negli Stati uniti dal Messico: nei 12 mesi precedenti il 30 settembre si sono avuti 1,2 milioni di intercettazioni, un calo del 25% rispetto all'anno precedente, il livello più basso dal 1995. Dal 1 ottobre al 5 novembre i fermi sono stati solo 43.000, con un crollo del 54% rispetto a un anno prima. Nello stesso tempo sono 50.000 in più i documenti rilasciati dai 46 consolati messicani negli Usa (indispensabili per un immigrato clandestino che vuole rimpatriare legalmente). Citato dal Wall Street Journal, l'Istituto nazionale messicano della migrazione afferma che nei due mesi successivi all'11 settembre sono rientrati in Messico 300.000 immigrati, il 9% in più rispetto all'anno prima. Quest'aumento è tanto più notevole in quanto dovrebbe avvenire esattamente il contrario: proprio perché i controlli sui clandestini sono più stringenti, un clandestino non dovrebbe uscire, perché rischia di non potere più rientrare: e infatti - contro una radicata tradizione di transumanza umana - hanno deciso di svernare qui negli Usa molti braccianti indocumentados che di solito invece tornano in patria nella stagione morta.
Una spinta al rientro viene dalla recessione economica che ha colpito settori con forte occupazione clandestina, come l'alberghiero e la ristorazione, e in genere l'industria turistica, che assumono illegali a piene mani e che hanno subìto un colpo durissimo dagli attentati e dal susseguente crollo dei viaggi aerei. Ma il fattore determinante è la paura. Delle 1.200 persone arrestate dall'11 settembre, 600 sono ancora in galera, e tutte per "reati migratori", cioè per essere entrati senza visto, oppure per avere il visto scaduto, oppure per avere un visto turistico (o studentesco) essendo invece lavoratori. La nuova legge antiterrorismo impone infatti un limite di 6 giorni alla detenzione arbitraria, oltre i quali sarebbe necessario indicare precisi capi d'accusa e quindi dare agli imputati i diritti alla difesa: ma la limitazione vale "tranne nel caso di reati migratori". Ecco perché vi sono centinaia di stranieri ancora rinchiusi in prigione dopo più di due mesi senza che se ne sappia il numero esatto, il nome e il reato di cui sono accusati.
Poiché la prima reazione dell'amministrazione Bush è stata di intensificare i controlli sull'immigrazione, l'effetto immediato è stato di bloccare tutte le richieste d'asilo. Dall'11 settembre trovano la porta sbarrata i rifugiati politici che bussano agli Stati uniti.
Ma è tutta la politica dei visti a subire un giro di vite: si parla persino di togliere all'Italia e ad altri 5 paesi il diritto a entrare negli Usa senza visto per soggiorni turistici: sono 29 paesi in tutto che godono di questo diritto, ma Argentina, Belgio, Italia, Portogallo, Slovenia e Uruguay potrebbero perderlo, per problemi che vanno dalla crisi economica (Argentina) alle frodi sui passaporti, ai furti.
Naturalmente, si è quasi del tutto prosciugato il flusso di visti concessi dai consolati Usa nei paesi arabi o di fede islamica. Vita dura per i familiari filippini, egiziani, siriani che vogliono ricongiungersi ai loro cari. Dovranno aspettare anni. Il fatto di essere arabi e islamici costituisce di per sé motivo di sospetto. Il ministero della giustizia ha tracciato una lista di 5.000 nomi da interrogare, tutti di maschi dai 19 ai 33 anni entrati negli Usa dal primo gennaio 2001 provenienti da "paesi sospetti". E non sono solo gli immigrati "poveri" a fare le spese della discriminazione: l'Fbi ha chiesto a tutti i colleges e università di fornire informazioni sui propri studenti islamici: chi frequentano, cosa mangiano, che libri leggono, che film vedono, la loro pratica religiosa.
La caccia allo straniero è concentrata su arabi e islamici, ma poiché questo racial profiling di fatto prende di mira tutte le barbe fluenti, ogni carnagione olivastra e e qualunque naso un po' adunco, finiscono per farne le spese anche etnie che niente hanno a che vedere con il Medio oriente o con l'Islam, come i sikh che hanno protestato.
Non solo è stato di fatto abolito l'habeas corpus per tutti gli stranieri che soggiornano negli Stati uniti, ma il clima di caccia alle streghe è chiarito da un semplice dato: dall'11 settembre sono arrivate alle autorità 435.000 informazioni anonime e la delazione sta diventando rapidamente lo sport nazionale. Oggetto di queste spiate sono quasi tutti stranieri. L'invito a segnalare qualunque elemento "sospetto" s'innesta infatti in una delle più radicate paranoie americane. Non è un caso se nei suburbi residenziali della classe media è frequente un segnale stradale triangolare a bordo rosso (di pericolo), sul cui fondo bianco spicca la silhouette nera, in ombra cinese, di un viso ricoperto da un cappello all'Humphrey Bogart, con la scritta "se vedi qualcosa di sospetto chiama subito il numero tal dei tali", a evocare imagini di forestieri pedofili. E, come sempre, le delazioni attuali servono a regolamenti di conti: mogli tradite che mandano in galera mariti adulteri, vendette per percosse subite, o rivalità sul lavoro. Ma il risultato è uno solo: mettere nei guai uno straniero.
Sono tutti questi piccoli indizi di un travaglio molto più profondo che agita la finanza e il governo degli Stati uniti. Ed è quello della politica dell'immigrazione. Con le leggi del 1924, gli Stati uniti avevano chiuso la porta agli immigranti e arginato quel flusso impetuoso che aveva portato negli Usa circa 40 milioni di persone dall'Europa, prima settentrionale, poi meridionale e orientale. Dal 1970 a oggi gli Stati uniti hanno invece progressivamente riaperto i cancelli. Dall'amministrazione Reagan in poi la politica d'ingresso si è fatta così lassista che si è avuta una vera e propria ondata di piena; e dovrebbe essere motivo di riflessione: è un'amministrazione di ultradestra e ultraliberista che ha applicato il laissez-faire al mercato del lavoro e all'immigrazione libera. Il risultato di questo tsunami umano è una rivoluzione nella geografia etnica e razziale degli Stati uniti: alla fine della Seconda guerra mondiale erano essenzialmente costituiti da una minoranza nera e da una maggioranza di discendenti dall'Europa; oggi invece le masse umane fluiscono soprattutto da America Latina e Asia (con un apporto dall'Europa orientale). Sui 281 milioni di residenti negli Stati uniti, ben 31 milioni sono nati all'estero e, tra costoro, 7-8 milioni sono clandestini.
E'quest'incontenibile flusso di mano d'opera non qualificata a basso prezzo a spiegare il cosiddetto miracolo economico Usa nell'era clintoniana, cioè di una crescita senza spinte inflazionistiche, perché ques'imponente esercito di forza lavoro marginale ha fatto sì che il boom non provocasse aumenti salariali. Ed è il motivo per cui proprio la parte più reazionaria dell'establishment americano è fautrice di una totale libertà d'immigrazione. Controlli più rigidi riducono il flusso di riservisti della forza lavoro e innescano rivendicazioni salariali, o comunque rafforzano i sindacati.
Il dilemma in cui si trova perciò l'amministrazione Bush è di essere dilaniata dai due volti del suo animo reazionario: l'aspetto liberista imporrebbe di lasciare inalterato il laissez-faire migratorio; quello poliziesco e repressivo porterebbe invece a una stretta di vite. Non è un caso se la New York Review of Books ha scelto di dedicare la sua copertina di novembre a questo tema, con un bel punto interrogativo: "Immigration to the US?" è il titolo del lungo saggio di Christopher Jencks che discute sette libri usciti sull'argomento e che mostra come l'ultima ondata migratoria abbia completamente alterato le correnti interne agli Usa, dissuadendo gli statunitensi con scarse qualifiche professionali dal recarsi in aree a forte immigrazione estera, dove la concorrenza sul mercato del lavoro è più spietata.
E'probabile che, come ogni altro governo padronale, l'amministrazione Bush finirà per coniugare laissez-faire generale con angherie particolari, frontiere di fatto aperte con episodiche, spettacolari retate. Già oggi si parla di scindere l'Ins in due diverse agenzie, con compiti l'una di servizio, l'altra di repressione. E già si pensa a quella che negli Usa è la panacea per tutte le difficoltà: una bella tecnologia avanzata, in questo caso per scovare i documenti falsi. Come la massa di clandestini, negli Usa anche quella di carte contraffatte ha dimensioni bibliche: l'anno scorso, in una sola retata, l'Ins ha sequestrato 1,2 milioni di documenti falsi, carte verdi, tessere della mutua, patenti.
Ma il padronato Usa non può privarsi dell'arma più potente a sua disposizione contro le rivendicazioni salariali, e cioè l'enorme massa di manovra della sterminata folla di lavoratori clandestini: 8 milioni, e noi in Italia ci lamentiamo per 300.000! E' più probabile che usi il nuovo clima d'insicurezza, la debolezza in cui dall'11 settembre si trovano gli indocumentados negli Usa per spremerli e sfruttarli un po' di più.
Fonte: Manifesto 22 novembre